“Vendere tazze e cinture firmate è più remunerativo della haute couture. Si guadagna più con i poveri che con i ricchi, perché ci sono più poveri“. Parola di Pierre Bergé, socio e compagno di vita del rimpianto Yves Saint Laurent.
I poveri, alias l’ex classe media erosa dalla crisi economica, gli abiti bellissimi delle maison possono solo sognarli attraverso l’industria del desiderio che arruola nel suo esercito i giornali di moda, la pubblicità e le star con il loro lussuoso lifestyle.
Ma, alla fine la haute couture, proprio ai supposti poveri si rivolge: tutte quelle sfilate, tutte quelle luci, il parterre di celebrities in prima fila e quegli abiti incredibili servono a vendere un sogno. E se quel sogno in pochissime possono permetterselo in toto, in moltissime possono permetterselo in parte e, manipolate dall’industria del desiderio, finiscono con il comprare borse e profumi, o, come diceva Bergè, “tazze e cinture”, delle maison di grido, in pratica sostenendone il fatturato che proprio sui loro acquisti si fonda.
Se è vero che la crisi è stata come una guerra che non ha fatto prigionieri, spazzando via dal mercato tanti brand-fotocopia l’uno dell’altro e di dubbia qualità se non quella di essere stati di moda per un certo periodo, le grandi griffe sopravvissute arrancano a fatica e moltiplicano le licenze nel tentativo di rifarsi in larga scala della perdita dei pochi facoltosi clienti che anche loro, in questi tempi così incerti, restano alla finestra per capire cosa succede.
Si naviga a vista. Il petrolio si sta esaurendo, ma nel frattempo si cerca di vendere il più possibile alle principesse arabe, clienti privilegiate della haute couture, finché l’oro nero varrà ancora qualcosa. E poi si vedrà.
Certo, esistono sempre i super-ricchi, ma acquistano compulsivamente e spesso senza nessun criterio di buon gusto. Può una griffe dichiararsi di valore se chi la acquista non ha il benché minimo senso estetico ma solo un portafogli stracolmo?
Secondo Tom Ford sì. Per lo stilista texano l’industria del fast fashion crea solo “abiti cheap per gente cheap“. Un’affermazione quanto meno discutibile con cui non siamo assolutamente d’accordo. Perchè, semmai, è vero il contrario: quante sono oggi al mondo le vere signore che conoscono l’arte del ben vestire? Pochissime.
Eppure ci sono talmente tante griffe di lusso…Com’è possibile?
Nomi come Jackie, Audrey, Marella… sono ricordati con rimpianto. Vestali, cultrici e custodi di uno stile tutto loro, sceglievano gli abiti in base alle loro necessità e alla loro immagine, rispettando ed esaltando quella che era la loro personalità. Non soggiacevano a nessun trend e dettavano legge in fatto di moda tanto che con loro gli stilisti si ridimensionavano nel loro ego e tornavano ad essere dei semplici sarti a servizio di personalità carismatiche.
Perché, come diceva Shakespeare, “non si può dorare il giglio”, in quanto è già perfetto com’è. Una donna-icona ha un allure regale che nulla deve al suo rango e tutto alla classe immensa che l’avvolge ad ogni passo. È lei a rendere bello un abito e non viceversa. Con buona pace degli stilisti.
Perché lei è un ‘Giglio’. Per questo crediamo nella forza della personalità di chi indossa un capo. Cheap o no che sia. Esistono quindi abiti cheap? Certo, come esistono anche persone cheap, solo che possono essere sia ricche che povere, vestite griffate o no.
Essere cheap è uno state of mind.
Il fast fashion è la risposta fashionista al precariato, dello stile almeno. L’abito non è pensato come oggetto di valore da sfoggiare per impressionare gli ‘impressionabili’. Come direbbero i Tiromancino è “La descrizione di un attimo”, non è fatto per restare, interpreta il momento e va veloce verso il prossimo.
È funzionale alla realtà che viviamo, in perenne mutamento. È pensato per ‘vestire’ corpo e anima adesso ed è quanto di più vicino all’essenza transeunte della vita umana. Oggi i tempi sono cambiati. In una visione finalmente più antropocentrica, un abito non sopravvive più alla donna che l’ha indossato. È lui a passare di moda e non il contrario.
Infine, un’ultima considerazione: in un’unica collezione di un marchio low cost troviamo sviluppate diverse tendenze. Ovviamente per catturare una clientela più vasta. Eppure questo dà modo alla gente di sperimentare più combinazioni, e provare capi che mai avrebbero scommesso che gli stessero così bene addosso. Dal cappottino bon ton al jeans più glam rock, ovviamente poi tutto reinterpretato secondo la propria personalità.
Le grandi griffe, oltre a proporre in ogni collezione una precisa tendenza che è il filo conduttore di tutti i capi proposti in passerella, sono spesso vincolate anche al loro passato tanto che anche quando cambiano direttore artistico devono rimanere fedeli a se stesse e rifarsi all’archivio della maison per non perdere la loro identità e, di conseguenza, i loro clienti storici.
Per questo, anche tra le signore bene che sempre più numerose affollano questi grandi store low cost, il fast fashion è sempre più diffuso, anche per amore del mix’n’match.
Ma caro Bergè, molte lady che sanno cos’è l’eleganza comprano abiti low cost e li indossano con accessori costosi.
Non saranno la maggioranza, ma non sono certo povere… forse solo più intelligenti.
Credit image: Michele Borghesi