Helmut Newton è un nome che non ha bisogno di essere preceduto da lunghe presentazioni. Fotografo fra i primi, negli anni ’70, ad intuire il bisogno di rinnovamento della moda e interpretarne quello di emancipazione da cliché che per l’epoca puzzavano di ancien regime, riesce, ancora oggi, a radunare folle e consensi. Al Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino al 21 luglio 2013, la mostra White Women, Sleepless Nights, Big Nudes raccoglie in 180 foto un’antologia per immagini concentrata sui tre volumi che, pubblicati rispettivamente nel 1976, 1978, 1981, portano gli stessi titoli. Donne la cui unica veste è quella del glamour in cui sono ritratte, dominatrici, padrone delle loro scelte e libere dalla presenza dell’uomo, addirittura capaci di controllarlo, l’uomo. Ma chi sono queste donne? Oggi lo sappiamo, le vediamo per strada, al cinema, in televisione, nell’industria discografica, ovunque e, spesso lo intuiamo, hanno perso quella scintilla che le rendeva tanto “speciali”. Le immagini che scorrono per tutto il percorso espositivo sono talmente attuali da confondere lo sguardo; dall’autoritratto con una modella in una stanza d’albergo, agli scatti dedicati alle città, osservate dall’alto dagli occhi di qualche signora disinibita, a quelli sul gioco di due amiche/amanti, al relax di un bordo piscina sospeso nel tempo e via scorrendo per tutto il “bel mondo” e lo studio del fotografo: la nudità è una costante. Più di 6000 ingressi solo nel primo fine settimana: nell’epoca del vedo (il non vedo ormai è archiviato), non si può certo pensare che tale successo possa essere decretato da seni scoperti e gambe aperte – perché in molti casi di gambe aperte si tratta. Il mito di Newton rappresenta un vero archetipo per chi si avvicina alla fotografia, per chi ama la moda e per chi ha voglia di tuffarsi in un passato non lontano e tanto accattivante; la sua disinvoltura, la sua totale freddezza nei confronti dell’immagine sono più che mai cucite sul nostro presente. Sorprendente la serie di scatti uomo-donna-manichino: se negli anni ’70 il gioco era quello dell’ambiguità e della confusione dei ruoli, oggi si aggiunge un nuovo livello di lettura. L’ironia visionaria di un fotografo ancorato al suo presente, ci racconta una tragedia attuale: chi è chi nella società 2.0? I manichini, sia che indossino abiti couture sia spogliati, incarnano la bellezza dello scontornato made in photoshop; le donne sono, tragicamente, bambole di carne e gli uomini, creature meravigliose nel senso più etimologicamente stretto del termine, sono talmente abbagliati da non distinguere il reale dall’inanimato. Visitate, godete – perché la qualità delle stampe lo permette e perché tanta creatività è una festa per l’intelletto – e meditate.
Già passata per il Museum of Fine Arts di Houston e il Museum für Fotografie di Berlino, la mostra è nata da un’idea di June Newton, vedova del maestro ed è curata da Mathias Harder.